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caturiti dalla notte dei tempi, i nomi arabi
delle stelle hanno sempre esercitato per
me un fascino particolare. Aldebaran, Betel-
geuse... Sono arabi anche i nomi di alcune
coordinate astronomiche. Nadir, Azimut... I
popoli islamici studiavano le stelle per calco-
lare le date delle festività e la posizione della
Mecca, per orientarsi durante i viaggi.
Ho ritrovato il fascino dell’astronomia islami-
ca sopratutto a Samarcanda. Visitando l’os-
servatorio astronomico di Ulug Beq, sovrano-
astronomo nipote di Tamerlano che studiava
la volta celeste con un vasto gruppo di scien-
ziati. Si scende una scala nella semioscuri-
tà mentre la mano sfiora gli archi di pietra
del sestante con incisi in arabo cifre e sigle.
Scoperto all’inizio del ‘900 dai russi, l’osser-
vatorio è stato trasformato in museo con la
costruzione di un edificio adornato di map-
pe celesti che ospita una statua raffigurante
Ulug Beq mentre studia carte astronomiche.
Nel ‘41 sono stati scoperti i resti del sovrano e
leggenda vuole che la violazione della tomba
abbia coinciso con l’invasione nazista dell’U-
nione Sovietica, cui allora Samarcanda ap-
parteneva. Gli studi sullo scheletro conferma-
no che Ulug Beq è morto per decapitazione.
Ucciso dal figlio che voleva prenderne il posto
nel 1449. A furia di stare con il naso all’insù, è
andata a finire che gli hanno tagliato la testa.
A Samarcanda sono andato con il fotografo
Fabrizio Annibali. Era il primo viaggio che fa-
cevo con lui e credo anche il primo per la rivi-
sta IL, mensile del Sole-24 Ore diretto e ideato
da Walter Mariotti. Nel pieno della crisi eco-
nomica globale, navigava in controtendenza.
Puntando sulla qualità dei testi e delle foto.
Oggi si direbbe Slow Journalism. Ho imparato