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Settanta non proiettavano altro che film di
karate. Dopo un po’ stufano.
Che rapporto ha con l’arte?
Ho sempre contemplato e apprezzato le
cose belle, anche quelle artigianali. Non
conosco bene i grandi pittori e scultori che
hanno scritto la storia dell’arte, a volte non
mi ricordo nemmeno come mi chiamo io. In
generale ammiro coloro che sanno misce-
lare i colori e anche disegnare, è una dote
che ho sempre invidiato. Credo comunque
che l’arte sia in un certo senso effimera.
Di un’opera danno centomila interpretazio-
ni e spiegazioni, che sono poi soggettive. Io
quello che faccio lo faccio per me stesso, mi
rende felice, per me fotografare è meglio di
un ricostituente, di un ansiolitico. Poi sono
anche spettatore di me stesso perché fino
all’ultimo non so nemmeno quale sarà il
risultato finale, perché è tutto da scoprire.
Con alcuni amici con cui ho lavorato quando
scattavo per la pubblicità, e che hanno quindi
alle spalle studi sull’arte, ci siamo ritrovati e
abbiamo formato un gruppo. Si chiama WOP
anche se non abbiamo ancora deciso cosa
voglia dire questa sigla.
Com’è nata l’idea del
progetto Caravaggio in
Cucina?
Come tutte le invenzioni scopri quello che il
destino ti fa apparire. Un giorno ho provato
un tipo di illuminazione particolare che era
fuori dai miei canoni ed è stata una vera e
propria scoperta particolare, anche se al
momento non trovavo la parte commerciale
se non per quei clienti per cui l’avevo utiliz-
zata. Poi l’anno dopo è capitata l’occasione
giusta per rispolverarla e l’ho utilizzata per
le foto del progetto “Caravaggio in cucina”
che mi ha dato grandi soddisfazioni. Nelle
varie mostre che ho fatto, e posso assicura-
re che sono state parecchie, c’era gente che
veniva a vedere i miei scatti senza conoscere
l’autore e in tanti credevano che si trattasse
di quadri a olio. Poi io mi avvicinavo e spiega-
vo che in realtà si trattava di fotografie.
Tra l’altro senza usare la
“magia” di Photoshop…
Sulle tele mettevo una vernice di protezione
satinata della LabItalia con il rullo, per ren-
derla omogenea. Un giorno per errore ho
usato la pennellessa che lasciava giù i segni
delle setole. Poi ho trovato che questo dava
un effetto particolare, era come se avessi
usato l’albumina su un quadro a olio. Da lì
ho iniziato a usare la pennellessa creando
apposta questi movimenti di setole lascian-
do giù la traccia. In generale ho sempre pre-
ferito non usare ritocchi. Poi se ottengo già
il 100% manualmente perché dovrei andare
a rovinare l’immagine con photoshop? Il ri-
schio è quello stravolgere completamente
l’immagine.
Anche l’idea di stamparle su
tela si è rivelata vincente…
Trattandosi di fotografie che sembrava-
no quadri, mentre di solito è il contrario, la
stampa su tela mi è sembrata il supporto
ideale. Ho guardato cosa offriva il merca-
to facendo il giro di alcuni laboratori e alla
fine ho trovato il Fotorent di Milano dove ho
trovato quello che stavo cercando: una tela
Epson che ad oggi trovo il supporto più con-
sono. Stampate e montate su telai di 4 cm
senza l’ausilio di una cornice hanno l’effetto
di uscire dal muro. Volendo si può stampare
anche su carta, ma con un altro spirito. An-
che le dimensioni si possono variare, io però
prediligo il formato 60x80, quello che tende a
mantenere le proporzioni naturali.
Che attrezzatura utilizza per
scattare?
Ho sempre lavorato con banchi ottici di me-
dio formato. Quando ho iniziato a scattare le
foto di questo progetto usavo un dorso digi-
tale che però dopo 60 secondi di esposizione
impazziva. Così ho provato con una Canon
Mac II e ho visto che funzionava meglio. Suc-
cessivamente la Nikon mi ha dato in gestione
la fotocamera D810, una macchina fantastica
anche se il 99% delle sue capacità io non le
ho mai sfruttate.