Un sogno di sempre. “Io mi vedevo a fare l’inviato di guerra, o i reportage stile National Geo-
graphic” dice Alessandro Grassani, 35 fotografo da anni in giro per il mondo per raccontarlo.
Avevo fin dall’inizio una cosa ben chiara in mente: volevo raccontare storie, mostrare ciò che
accade e che gli altri non possono vedere.
Come hai iniziato?
Alla Bauer, (istituto di fotografia di Milano) ho seguito il corso triennale, il più lungo e impor-
tante corso di fotografia post-diploma in Italia in quegli anni, una formazione utile per chi vuole
avvicinarsi alla fotografia in modo professionale. Volevo fare il fotoreporter e un professore mi
ha presentato a un’agenzia, ho finito la scuola e subito ho cominciato a lavorare. Faccio anche
lavori corporate come quelli recenti per Fs e Enel le collaborazioni con Lufthansa e l’Ice. Sono
interessanti e mi aiutano a pagarmi gli altri progetti.
E così poco dopo eccoti in giro per i cinque continenti: dai Balcani al Sud America, Asia ed
Estremo Oriente…
Sì, ho lavorato in circa trenta Paesi nel mondo. Dal 2004, col funerale di Arafat, ho cominciato a
seguire il conflitto tra Israele e Palestina, ero nella striscia di Gaza quando hanno sgomberato
le colonie, ero in Iran per il terremoto che distrusse la città Bam dove tra l’ altro ho lavorato a
un progetto di quattro anni sulle minoranze iraniane.
In quanto a tecniche cosa ci
racconti? Che tipo di prepa-
razione ti serve? Come ti or-
ganizzi?
La vera preparazione non è
tanto tecnica, ma consiste
nel documentarsi sul tema:
faccio una vera ricerca gior-
nalistica approfondita - che
richiede molto tempo - per
vedere se l’argomento è già
stato trattato. Per saperlo
devi essere informatissimo,
non perderti nessun quoti-
diano, rivista, tenere con-
tatti con le Ong (Organizza-
zioni Non Governative per
lo sviluppo e la solidarietà
sociale) e informarti sul
luogo stesso, tessendo reti
di contatti basilari. Comun-
que – per quanto riguarda
la tecnica – no, non faccio
più analogica: costa trop-
po e non mi è utile.Circa la
macchina, di solito uso una
Nikon D700 dove monto il
35mm fisso. Mentre quando
opto per il medio formato
solitamente utilizzo il pa-
noramico, un approccio più
lento e riflessivo delle reflex.
Marche preferite?
Uso Nikon da sempre, ho
comprato la prima macchi-
na che ero ancora a scuola,
era una FM2. Mi trovo bene,
con Nikon puoi usare ancora
le vecchie ottiche e montarle
sulle nuove digitali.
Fai post-produzione?
Post produzione minimale:
solo i contrasti. E non ta-
glio mai, non lo concepisco,
perché quando scatto so già
di essere lì, nella posizione
giusta, o faccio un passo in
avanti, uno indietro…
E riesci ad autofinanziarti e
a vivere del tuo lavoro, vero?
Vivo ancora di editoria, ma
oggi i giornali non hanno più
soldi per mandare i fotografi
dall’ altra parte del mondo.
Finisce che mi organizzo io
il viaggio, anticipando tut-
te le spese: l’anno scorso in
Asia per sette mesi, intanto
l’agenzia fa sapere che sei
là, qualche giornale ti affida
dei lavori. Il mercato di oggi
è questo: lavori nel Paese
o continente dove risiedi al
momento. Ho iniziato un pro-
getto importante sui profughi
ambientali, le migrazioni cau-
sate da cambiamenti clima-
tici: in Mongolia, per il fred-
do, in Bangladesh, a causa
dell’innalzamento del livello
del mare, e infine in Kenya,
per la siccità. Ho investito una
bella somma di denaro, ma
in seguito ho venduto bene
il reportage a vari media (al
Sunday Times, Zoom, Days
Japan, Foreign Policy, Sette,
il magazine del Corriere del-
la Sera e altri ancora). E poi
a finanziare ci sono i premi
internazionali – ne ho vinti
sette-otto - che rendono soldi
e danno visibilità. Ora uso le
piattaforme internazionali per
il fund raising: sono siti come
dove tu proponi un progetto e
trovi lì chi ti finanzia, dei so-
stenitori che danno cifre an-
che piccole in cambio di una
piccola parte del tuo lavoro,
stampe o quant’altro.
Come definiresti il tuo stile?
I miei lavori non sono solo
fotografie, ma credo che si-
ano testimonianze dei cam-
biamenti in atto nella nostra
società. E poi - diceva Smith
(William Eugene Smith, fo-
toreporter statunitense) - i
lavori di certi fotografi dan-
no l’impressione che ci sia
una patina, una membrana
tra loro e i soggetti. Bene,io
penso proprio come lui, per-
ché per raccontare una sto-
ria devi diventare amico del
protagonista di quella vicen-
da, di quell’istante. E’ una
specie di empatia per ciò che
sta nel tuo obbiettivo, che sia
dall’altra parte del pianeta, o
più semplicemente, dietro la
porta del tuo vicino di casa.
Fotografie e informazioni su
Alessandro Grassani sono vi-
iniziative - mostre, incontri
con autori, biblioteca aper-
ta a tutti - dell’associazione
07
1,2,3,4,5,6,7,8 10,11,12,13,14,15,16,17,18,19,...76