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la passione per la fotografia è andata a fondersi
con quella per il viaggio. In questomodo, dall’età
di quindici anni, ho avuto la fortuna d’iniziare a
viaggiare, ritrovandomi fra le mani l’attrezzatu-
ra “ereditata” da mio padre. A ciò si è aggiunto
l’impegno sociale, che ha proseguito e concluso
in maniera naturale il filo rosso che già legava i
due precedenti interessi.
Il tuo lavoro predilige il
bianco e nero, come mai questa
scelta?
Amo il bianco e nero, una scelta essenzialmen-
te sentimentale: mio padre stampava in bianco
e nero, così come gli autori che maggiormente
hanno influenzato lamia crescita e il miomodo di
concepire la fotografia usavano il bianco e nero.
Indubbiamente il suo utilizzo riesce a valorizzare i
contenuti di alcune narrazioni così come, per altri
versi, ne è capace il colore. Solitamente a questa
domanda rispondo prendendo in prestito le paro-
le di Robert Frank: “Il bianco e il nero sono i colori
della fotografia poiché simboleggiano l’alternan-
za tra la speranza e la disperazione, alle quali il
genere umano è soggetto da sempre”.
Dalle tue foto risalta
soprattutto l’aspetto sociale
dei luoghi. Gran parte del tuo
lavoro si è svolto nel sud del
mondo. Come nasce l’idea di un
tuo reportage, come entri in
contatto con le realtà che ti
interessano e per quanto tempo
rimani in quel luogo?
Sono molto interessato ai vari sud (anche quelli
che esistono nel nord), a tutte quelle realtà in cui
c’è ingiustizia e a tutto ciò che riguarda il mondo
contadino. Detto questo, un progetto può nascere
in modo anche molto banale, delle volte basta la
lettura di un articolo, l’ascolto di una canzone o
la conoscenza di una persona. Come diceva De
Andrè “quand’ero piccolo m’innamoravo di tutto
correvo dietro ai cani”. Mi ritrovo molto in questa
definizione: basta un nulla per far nascere un
interesse, un’idea. Per entrate in contatto con
le realtà che mi interessano, in genere cerco di
avvicinarmi a movimenti sociali, associazioni e
ONG che conoscono od operano in quella realtà
e che possono inserirti e “portarti dentro”. Il re-
sto, la parte più importante, dipende dal contat-
to umano, dall’essere disposti ad aprirsi e ascol-
tare gli altri, le loro storie, le loro problematiche.
Solo dopo si può provare a trasporle in immagi-
ni. Riguardo il tempo, io lavoro molto su progetti
di lunga durata che necessitano di anni prima di
arrivare a conclusione, anche perché se si vuo-
le utilizzare la fotografia per approfondire una
tematica c’è bisogno di tempo. Ad esempio per
Pig Iron (un libro del 2013 sulle gravi ingiustizie
sociali e ambientali commesse dalla multina-
zionale Vale nel nord-est brasiliano) sono torna-
to in quelle zone per più di sei anni, ogni volta
per uno o due mesi.
Che tipo di attrezzatura ti
porti dietro per realizzare un
reportage?
Non credo sia importante la macchina o l’attrez-
zatura di cui si dispone per realizzare un repor-
tage. Comunque, porto la mia reflex e un paio di
Dal libro
“Il deserto
intorno”
in vendita su